Mi chiamo Amy, e sono quella bella. Louise May Alcott ci ha tenuto a porre l’accento su questa mia caratteristica, ma almeno ha secondariamente rilevato anche che me la cavo con la pittura. Fino ad oggi mi ero accontentata, ma da un mesetto tutti i giornali parlano di Piccole donne, perché è appena uscito su Netflix il nuovo film che era uscito in sala subito prima del lockdown (vogliamo commentare??). La versione di Greta Gerwig è un po’ diversa dalle altre: in pratica fonde la storia di noi quattro con quella di Louise May, a partire dall’inizio, quando Jo/Louise porta un racconto da un burbero editore e lui, dopo aver cancellato qualche centinaio di parole, dice che si potrà parlare di pubblicazione a patto, naturalmente, che la protagonista si sposi. “O muoia, fa lo stesso”. È una modifica interessante: sappiamo tutti che mia sorella somiglia molto a Louise, ma nessuno fino ad ora lo aveva esplicitato fino a questo punto. Ho trovato interessante anche il montaggio, che fa procedere per piani paralleli la nostra infanzia e l’età adulta, cambiando solo i filtri, perché evidentemente non c’era budget per pagare attori diversi come nella versione del 1994 di Gillian Armstrong, quindi agli spettatori distratti consiglio di fare caso ai colori: se la dominante è calda, con tanti gialli e arancioni, siamo ancora piccole, se la dominante è fredda si parla del presente.
Detto questo, non è che io voglia criticare il film, che per molti aspetti è pregevole. Il punto è che mi avevano dato delle garanzie che sono state mantenute solo in parte. Adattare un libro per il grande schermo è un processo complicato, e non si può mettere tutto. Oltre a questo, ogni regista e ogni sceneggiatore, a partire dallo stesso testo di partenza, si fa una sua idea della storia e dei personaggi. Il mio personaggio parte già svantaggiato. Ammetto che un po’ è colpa mia: forse non avrei dovuto bruciare il romanzo di Jo, che era la preferita di tutti. Ed è ovvio, accidenti! È il ritratto di Louise, che aveva quindi tutto l’interesse nel presentarla bene facendo passare in secondo piano tutte le sue mancanze. Però nel film di Mervyn LeRoy del 1949 io sono presentata come un’oca saccente e ignorante.
Non sono così. Semplicemente da quando ero piccola ho sempre avuto chiarissime le mie priorità: volevo viaggiare e sposare un uomo ricco, che male c’è? Anche mia sorella Meg si sdilinquiva per i cappellini con i nastri e per i vestiti pieni di pizzo, ma non è riuscita ad andare fino in fondo: intendiamoci, è un’ottima moglie per John Brooke, ma spesso la becco a guardare le vetrine e a sospirare. La sua priorità era l’amore, ma ogni tanto se lo dimentica. Per la maggior parte del tempo, lei però è felice così, quindi sono contenta anche io, però siamo molto diverse.
Tenete presente che all’epoca era dura essere in quattro, senza dote e andare avanti di sogni. Quando ero piccola, poche donne lavoravano, e se lo facevano erano sempre lavori umili. Le vedove con figli erano in balia della sorte, e vivevano della carità delle persone di buon cuore. Ci si poteva permettere di stare da sole solo se si godeva di una certa rendita, come la zia March, altrimenti il dictat era uno: trovati un buon marito. Questo lo volevo precisare per tutti quelli che nei secoli mi hanno definito opportunista. Non è così, o, almeno, non lo ero più di altre.
All’inizio ammiravo molto Jo, e abbiamo più cose in comune di quanto si creda: anche lei voleva vivere alle sue condizioni, era indomita, e non c’era sconfitta che la distraeva dal suo obiettivo di vivere di scrittura. Però alla fine anche lei si è sposata. E lasciate che vi confidi una cosa: ho sempre avuto l’impressione che quel matrimonio sia stato raffazzonato alla bell’e meglio e che non ci credesse nessuno. Era come se dovesse andare a finire così o qualcuno non sarebbe stato contento. E non parlo di Jo: lei bastava a se stessa, voleva solo scrivere e aveva la stoffa per farlo. Che fine ha fatto invece? Ha aperto un collegio! Direi che come destino è abbastanza lontano dai suoi sogni di gloria, e sono convinta che se non avesse sposato quella lagna del professor Bhaer se la sarebbe cavata molto meglio (spero che questa parte non la legga, comunque!). Ma ora veniamo a me. Mi avete dato della svampita opportunista, ma se lo fossi stata davvero non pensate che avrei sposato Fred Vaughn? Nel vocabolario, alla definizione “buon partito” c’era la sua foto: era bello ed era ricco, più ricco anche di Laurie.
E, a proposito, Greta Gerwig e Gillian Armstrong si sono accorte di una cosa a cui non ha fatto caso Mervyn LeRoy, probabilmente perché era quel tipo di uomo che non riconoscerebbe l’amore nemmeno se bussasse alla sua porta sventolando la carta di identità: io ho sempre amato Laurie. Non lo ammettevo, neppure con me stessa, perché Laurie era di Jo. Lo pensavamo tutti, e io ho passato tutta l’infanzia a invidiarla per il loro rapporto, è stato l’unico caso in cui avrei voluto essere al suo posto. Quando sono partita per l’Europa con la zia, ho sperato di dimenticarlo, ma poi me lo sono ritrovato anche lì, tutto intento a dimenticare Jo dandosi alla pazza gioia.
L’ho spinto a darsi una regolata, e a quel punto deve aver smesso di pensare a me come a una bambina, come aveva sempre fatto quando veniva a casa nostra solo per vedere Jo. Alcuni pensano che io sia stata un ripiego, ma non bisogna giudicare la vita sentimentale degli altri leggendola in un libro corale, che per forza di cose deve tacere parti della storia. Ormai da due secoli io vedo ogni giorno l’amore di Laurie per me. Ha amato anche Jo, certo, ma sono due cose diverse. Per lei provava l’amore bambino che si prova per i compagni di giochi: è bellissimo, ma ti passa quando cresci. C’era affetto, tra loro, ma non passione.
Io sono felice della mia vita: ho sposato l’uomo che amo e vivo la vita che ho sempre sognato. Non ho dovuto scendere a compromessi, a differenza di Meg e di Jo, per non parlare di Beth che se comincio a parlarne mi metto a piangere, e non mi va di farlo davanti a sconosciuti. I romantici non dovrebbero avercela con me: ho scelto l’amore, alla fine.
Nel film devo dire che questa cosa si è notata, e spero di aver messo a tacere qualche critica. Ci sono solo due cose che non mi vanno: la prima è dover passare la mia vita cinematografica a fianco di Timothée Chalamet, che continua a dimostrare 15 anni mentre io ne dimostro 25. Il tutto mentre mia sorella se la spassa con Louis Garrel, mentre io ricordavo il professor Bhaer come un vecchio barbagianni. Quello che meno sopporto, però, è di specchiarmi e vedere la faccia di Florence Pugh: quella non sono io! Capisco che l’ideale di bellezza sia un po’ cambiato dal 1949, ma provate voi ad andare a dormire con le fattezze di Liz Taylor e svegliarvi con quelle di Florence Pugh. Intendiamoci, c’è sicuramente di peggio, ma visto l’andamento generale la mia domanda è una sola: chi accidenti ha fatto i casting??